sabato 2 luglio 2016

Storia ed importanza della stampa fotografica.



Ho letto da poco un simpatico manuale di stampa fotografica del 1964, di Toni Nicolini,  che in prefazione scriveva:


Tenebre e luce sono i termini entro i quali si svolge il lavoro del fotografo.
Il fotografo usa la luce come materia prima per costruire delle immagini.
La luce infatti è l'essenza stessa di un'immagine fotografica. Se proprio con un mezzo così immateriale, qualcuno riesce a catturare la vita senza distruggerla, traducendola in immagini, noi ci togliamo il cappello e lo chiamiamo maestro.
 
Al termine del volume vi è una nota del compianto Giuseppe Turroni, grande critico cinematografico.
La lettura mi ha appassionato al punto che ho deciso di ricopiarla qui: scoprirete che nulla è cambiato negli ultimi 50 anni, e che stiamo vivendo un periodo di barbarie fotografica e culturale.



Storia ed importanza della stampa fotografica.

a cura di Giuseppe Turroni.

Siamo in un'epoca di decantazione dell'immagine fotografica, oppure vogliamo la fotografia "come è" come appare, come specchio totale della realtà?
La domanda è un tranello, ovviamente. La poniamo per fare entrare subito il lettore nel mezzo del discorso.
Decantazione dell'immagine significa naturalmente la fotografia ben stampata secondo la sua struttura compositiva, la sua necessità espressiva. Il fotografo in sede di stampa, fa vivere, o fa rivivere, se preferite, ciò che all'atto pratico dello scattare aveva in mente.
La stampa è la risoluzione finale del suo problema espressivo. Un buon fotografo deve essere anche un buon stampatore, altrimenti non è un vero fotografo. Certo, ci sono casi che contraddicono questo nostro principio, ma sono casi rari, da prendere con le pinze. L'amore della immagine deve seguire passo passo le fasi successive della realizzazione pratica. Uno che dà da stampare ad altri i propri negativi, si comporta come quel tale  che per telefono ordina all'antiquario "un quadro antico, magari del Seicento, con tanta frutta, fiori e insetti qua e là". Oppure come il neo-colto, che per farsi una conoscenza immediata dell' "impegno" artistico della sua epoca (oggi si dirà: di una stagione, di un mese particolare) va in libreria e compra i libri di maggior successo, i premi recentemente assegnati. Gli esempi sono numerosi. Ma avete già capito dove vogliamo parare.

La stampa è tutto. I fotografi di una volta la consideravano un tutto irripetibile, non la sapevano né potevano scindere dal loro processo creativo. Non sarebbero stati, in caso contrario, gli Stieglitz, i Cartier-Bresson che conosciamo; e oggi non ci sarebbero i Penn e i Klein, i Giacomelli, non avremmo avuto i Cavalli e tanti altri ancora.

Dunque per tornare alla nostra domanda: quale epoca è la nostra? Di decantazione, oppure di imitazione realistica? Rispondiamo subito: di imitazione realistica, di illustrazione - spesse volte, pedissequa - della realtà, così come noi crediamo o pretendiamo che essa sia.

Una nuova cultura si è affacciata negli ultimi anni nel panorama della fotografia internazionale. I giovani, che vivono in un tempo di tecnica sempre più specializzata, sembrano non amare la tecnica. E' un paradosso, forse un po' difficile da spiegare, ma effettivamente il problema si rivolge polemicamente contro la tecnica. Naturalmente anche la stampa ci rimette. O meglio, la stampa è vista in una sola direzione. Va di moda, per esempio, la stampa contrastata. Tutti ad eseguire - o peggio, a fare eseguire - immagini fortemente contrastate, neri cupi, bianchi abbacinanti. Spesso, il culto grafico si impone decisamente. E il paradosso si arricchisce di nuovi elementi: la tecnica, scacciata dalla porta, rientra dalla finestra. Si diceva tanto contro la tecnica, ma ci si accorge alla fin fine che si trattava di una tecnica speciale, legata ad altre stagioni, ad altre esperienze.

E' una reazione a un gusto che si ritiene sorpassato e che molto probabilmente è veramente tale. Pensiamo al panorama della fotografia italiana dopo la prima guerra mondiale. Prima fotografare era costoso e faticoso, era un lusso da signori, da Conte Primoli e via dicendo: era un hobby per pochi (come tutti gli hobby, che prima sono praticati da una certa élite e poi si volgarizzano al ceto medio e infine alla massa). I reporter svolgevano il loro lavoro e anche da noi, nonostante le storie della fotografia straniera non ne parlino, e nonostante i piatti imitatori di tali storie tacciano, c'erano stati reporter di un certo valore. C'erano due categorie ben separate: professionisti e dilettanti. I dilettanti, in quel grande arco di tempo che va dalla fine della prima guerra mondiale agli anni 1950, avevano per il loro hobby un grande amore, geloso ed esclusivista. Vedevano la fotografia, e solo la fotografia. Condizioni politiche impedivano loro di fotografare scene di realtà molto triste, o scottante, o polemica: ad esempio, le condizioni del meridione, uno sciopero, bambini laceri, una via miserevole, e via dicendo. S'erano rifugiati, perciò, nel culto della bella fotografia. I toni alti imperarono per parecchi decenni. Fondarono un gusto, costruirono una scuola che ancora dà echi notevoli (di recente abbiamo, ad esempio, avuto l'enorme piacere di "scoprire" un fotografo di Vicenza, Bruno Bulzacchi, che fotografa secondo quel gusto ed esegue immagini bellissime, ancora attuali, stampate meravigliosamente, tagliate con una precisione addirittura classica: l'editore Neri Pozza ne è entusiasta, e a ragione). Lo spazio a nostra disposizione non è molto per questo breve panorama, e quindi dobbiamo un poco stringere i tempi, e così, per esemplificare, dobbiamo ricorrere ai nomi già molto noti, quelli che Beaumont Newhall sembra aver conosciuto solo da un anno a questa parte, ma di cui noi abbiamo parlato ampiamente da circa dieci anni. Il gusto di tali dilettanti era rivolto verso la più pura "bellezza" fotografica.

E cos'è più puro, proprio dal lato dell'immagine, di un tono alto? Due lenzuoli stesi ad asciugare allora non significavano la réclame dell'Omo e dell'Olà, ma molto di più. Storicamente erano una via di salvezza: in altri termini, quei fotografi che non potevano riprendere eventi reali (come adesso capita in Russia: infatti se vediamo riviste fotografiche russe colpisce il loro gusto 1938, che però finisce sempre nella esaltazione della società meravigliosamente felice e serena) si rifugiavano nella fotografia avulsa dalla realtà: un vaso di gerani, una sedia, una parete nuda, un uovo, due lenzuoli stesi ad asciugare, le canne scosse dal vento, un pesce lesso, una natura morta. La loro cultura artistica era , in molti  casi, ottima. In tante nature morte di Cavalli è dato di scoprire, con una certa facilità, l'impronta delle vicende pittoriche di un Casorati, di un Carrà, di altri grandi pittori dell'epoca.  Anche Casorati ha i toni alti, come Cavalli, come Vender, come Bulzacchi.

Comunque i giovani d'oggi chiamano Arcadia quel periodo. Dicono Arcadia con un tono polemico, come di un passato da seppellire e dimenticare. A noi tuttavia non sembra un passato sterile. Quei fotografi avevano insegnato un gusto dell'immagine che è difficile dimenticare e che trasporta la fotografia in una sfera di artistica classicità.

Basta con i toni alti, gridano i giovani fotografi italiani dopo gli anni cinquanta, quei fotografi che tanto hanno contribuito a rendere moderna la nostra fotografia;  e cosa avevano adottato per reazione? Una stampa fortemente contrastata, durissima, memore delle esperienze fotografiche tedesche, americane, giapponesi. Erano diventati duri e geometrici, e tuttavia il loro amore - detto a parole -  per la realtà molte volte si limitava a fare il verso, in altra direzione e in altro stile,  a quell'Arcadia da essi tanto disprezzata. Pensiamo ad un Camisa (ora tace): realisticamente, cosa ha dato di più di quei fotografi che tutti i giovani allora ritenevano fucili usati, arrugginiti, senza cartucce? Una stampa diversa, ecco tutto; qualche nuovo argomento: il Sud, naturalmente. Ma la base era identica. Bisogna arrivare alle ultimissime stagioni, per vedere qualcosa di diverso.

Ma ecco che la novità dell'esame realistico va, spesso, a scapito della bellezza dell'immagine, della ricercatezza della stampa.

Non è raro vedere oggi immagini mal stampate. Come tanti pittori astratti che non sanno dipingere, i neorealisti dell'obiettivo fotografico dicono: la stampa è forse brutta o scadente, ma io la volevo proprio così. E perché la volevo così? Ma è semplice, mi meraviglio che non abbiate ancora capito: volevo mettere in risalto questo e quell'aspetto, questo e quel dato realistico.
Così ci si salva sempre. Come i romanzieri moderni, del resto: i quali non avendo più niente da dire, scrivono sulla loro mancanza di idee. Non tutti i romanzieri moderni, diciamo: quelli che sono entrati in crisi.
Del resto la crisi è il segno dei tempi. Crisi di che cosa, di quale valore? L'artista parla semplicemente di crisi. Esistono crisi diverse a seconda delle varie discipline artistiche. C'è la crisi del cineasta, che fa fatica a trovare trame nuove e ha paura anch'egli della tecnica, del ben fatto, della "commedia americana troppo ben congegnata". C'è la crisi del pittore. C'è la crisi del musicista. La crisi del romanziere. La crisi del fotografo, com'è?

A noi sembra una crisi di marca intelletualistica. Ci spieghiamo meglio. Il fotografo di una volta aveva la sua gran fede, il suo indefesso amore per la sua arcadia fotografica, coi toni alti, le uova, il paniere coi fichi e tutto l'armamentario. Viveva sereno. Vinceva le sue medaglie, le sue targhe, le sue anfore, strappava a pieni voti i suoi diplomi di artista fotografo e campava cent'anni non sfiorato da un'ombra di dubbio. L'altra fotografia era cronaca, per lui, e basta.

Dopo il 1950 è successo il quarantotto. Si sono rovesciate le parti. Cronaca pseudo-artistica è diventata tutta quella faccenda dei toni alti; vera cultura è diventata quella che si riteneva cronaca e basta. Chi avrà ragione? Il nostro capitolo non deve dare ragione o torto, e poi deve parlare di stampa. Si può dire soltanto che la stampa ha seguito di pari passo gli umori delle polemiche. Dai toni alti si è passato immediatamente a quelli contrastati. Il cammino è stato irrazionale a veder nostro. Una reazione, salutare quanto si vuole, ma dettata da gusto, niente altro che gusto. Solo adesso un certo "impegno" polemico vuol portare la fotografia ad una conoscenza culturale. Con quali risultati è facile vedere: banali, banalissimi, senza gusto, senza tradizione, senza cultura. Il goffo comportamento del campagnolo che vuole frequentare un mondo che non è il suo, potrebbe essere paragonato a questi lodevoli tentativi.

La stampa viene trascurata. Viene considerata un di più, un abbellimento. Viviamo in una civiltà di massa, in cui la cultura media, quella che odia la grande cultura perché non potrà mai arrivare al suo livello e disprezza sotto apparenze affettive la cultura di massa, cerca di imporre i propri principi piccoli-borghesi, già popolari: da una parte "ciò che non piace a tutti" (perché ci vuole un quid a capire che non tutti hanno) dall'altro un omaggio indiretto alle leggi politiche e polemiche imperanti: una simpatia che va sempre in una determinata direzione, soggetti da abolire, e la fotografia che è bella, è considerata l'alleata della classe dominante, il suo cuore estetico, la sua portavoce riflessa.

E' logico che la stampa faccia le spese di tutto questo. La stampa, che deve completare, abbellire, dare un tono di ricercatezza - dare uno stile definitivo all'insieme.
La nostra epoca non ama lo stile. Ama di più la forma, non lo stile, che è giudicato un credo estetizzante, degno della belle époque, di epoche di decadenza.
Siccome siamo un un'epoca rude e progressista, è ovvio che anche la stampa cerchi di andare incontro i gusti della classe dominante - che ama molto di più, come è facile capire, i toni alti, le fragole e i cardi, i garofani bianchi, le belle bottiglie impolverate che fanno tanto Morandi e con un passaggio dai grigi ai grigini veramente magistrale...
Queste non sono intuizioni personali. La verità va effettivamente in tale direzione. La fotografia se vuole essere viva deve essere al passo con i tempi. Sennonché c'è modo e modo di stare al passo. Noi diremmo che molte volte il fotografo si adagia troppo tranquillamente su queste frasi fatte - e trascura la tecnica perché gli è comodo, perché la tecnica è il suo linguaggio, e il linguaggio costa fatica; infatti si fa molta fatica a scrivere bene mentre a scrivere così così è abbastanza facile, basta un po' di inventiva, un po' di casi originali da mettere sul bianco ed il gioco è fatto.
Un tempo c'erano leggi troppo ferree, per la stampa. In un concorso trenta anni fa, avrebbero senz'altro scartato una fotografia troppo contrastata. Oggi scartano quella a tono alto, anche se è bella, anche se dice qualcosa di diverso, anche se esprime una verità che non tutti i toni contrastati sanno ovviamente esprimere. E allora chi ha ragione?

Nessuno ha ragione. Ha ragione solo chi agisce con sincerità e buona volontà. Basta guardare le storie della fotografia. I nomi sono lì a dimostrarcelo. Tutti i grandi fotografi erano bravi stampatori, stampavano secondo uno stile personale, per completare il loro credo espressivo, per dare corpo ad una idea intima, per esprimere in tutta onestà e sincerità ciò che stava loro a cuore.

Non si può prescindere dalla stampa, così come nello scrivere non si può fare a meno di un nesso logico tra i concetti. L'opera d'arte non può fare a meno di tutti gli elementi che la compongono. Un libro senza punteggiatura può essere senz'altro valido, ma tanti libri senza punteggiatura diventano una cifra obbligata.

Per tornare al nostro discorso dopo i toni alti e dopo il periodo (1950-1960) dei toni contrastati, pare essere succeduto un terzo periodo, quello della stampa normale, media, da agenzia fotografica, da reporter che non ha tempo da perdere con lo stile, con gli acidi, e di solito tornato a casa dopo il servizio lo dà a stampare al laboratorio della sua ditta, del suo giornale, del suo settimanale, o a un laboratorio di fiducia: si fida, il nostro reporter, perché non ha tempo, non ha voglia, e siccome è troppo preso dalla realtà, va in giro a guardarsela, la sua cara realtà, con quel modo che oggi hanno i fotografi: non si capisce mai se sono cinici o affettuosi, se sono un po' sadici o se sono semplicemente dei delusi, degli amareggiati (non diventano dei Cartier-Bresson, la tv non li nomina, la Cederna non ne parla nella sua rubrica e loro diventano amari).

Molta sgranatura, certo, ancora. Anzi, la grana grossa è stato un punto di passaggio dal tono contrastato alla odierna "condizione del reporter". Negli anni 1958-1960, la moda aveva un ritmo addirittura ossessivo: non c'era un giovane esteta dell'obiettivo che non presentasse la folla (milanese, per lo più) come in un limbo: la folla si vedeva e non si vedeva, il carnevale intanto impazzava, e Klein continuava con la sua stampa tanto contrastata che diventa quasi grafica, e Carrieri faceva lo stesso da noi, e intanto i fautori della grana avevano creato quel clima crepuscolare, non trascurabile, interessante, con qualche risultato piacevole qua e là.
Molti di questi sono passati alla fotografia pubblicitaria. Ed è tutto logico, estremamente logico. Sono passati alla cultura di massa. Sono diventati gli esteti della cultura di massa. Il passo non poteva essere più prevedibile, più armonioso: nei suoi fatti ed antefatti.

Dalla grana grossa alla "condizione del reporter" il passo è stato brevissimo, più breve di quel che si possa pensare in un primo momento. Infatti ci sono reporter che fotografano ancora con la grana grossa, o che in sede di stampa pretendono effetti analoghi.
Dove ci porterà "la condizione del reporter"? Ci porterà ad un'altra reazione. Tra venti anni il tono alto verrà riscoperto, statene certi. E giù allora elogi all'anticonformista Cavalli, a tutti i fotografi della Gondola, e l'ottimo Monti, che è un maestro della stampa e che è pur sempre un gran bravo fotografo, conoscerà un periodo di oscurità e di abbandono, salvo poi essere riscoperto dopo altri venti anni. Sono forse supposizioni personali? Non crediamo. Dette, sì, in modo personale, ma la storia dell'arte parla chiaro...

Sono periodi del gusto, questi che abbiamo cercato di indicare per sommi capi; ma implicano anche eventi storici, che stanno alla base dei fatti. Il tono alto è storicamente spiegabile: da lato artistico è quello che ha dati risultati più duraturi, tanto è vero che dopo trenta anni noi guardiamo ancora queste fotografie con un certo diletto (e non ci chiamiamo soltanto Turroni, ma anche persone di buon gusto, colte, non prese per il collo dagli schemi attualmente in voga).

La "condizione del reporter" è alla fase iniziale. Noi crediamo che potrà dare risultati positivi. Il reporter, del resto, sul piano del costume, vuol dire proprio la moda del momento. La televisione parla dei reporter, grandi e piccoli che siano, come di tanti Raffaelli, El Greco, Durer e Piero della Francesca; dedica a loro interviste, in cui si parla di mondo interiore, di stile, di poeticità, e via dicendo: qualifiche riservate un tempo agli "artisti dell'obiettivo", a quelli dei toni alti o comunque dei toni ricercatissimi, con una stampa che si imponeva proprio nell'ambito della ricerca d'uno stile individuale ed individuabile.

Un giovane che oggi non riesca negli studi o non abbia voglia di fare l'impiegato o non abbia abbastanza talento per scrivere articoli di critica cinematografica, si mette a fare il reporter. Si mettono a fare il reporter dilettanti, specie venuti dalla provincia: e con risultati eccellenti. Si mettono a fare i reporter i congiunti dei divi dello schermo, i figli di pezzi grossi, i falliti e i riusciti. La condizione del reporter oggi detta legge. Perciò con questo termine noi vogliamo indicare una stagione, un periodo della nostra fotografia.

Questo periodo comincia dal 1960 e in questo momento è nel suo splendore: scriviamo alla vigilia di Natale 1964. I risultati saranno buoni. I risultati buoni non mancano mai. Accanto a mediocri ci devono pur essere i buoni fotografi. La fotografia di questi reporter vuole documentare, far vedere, l'occhio commosso, patetico, poetico, l'occhio che scruta, a cui non sfugge niente. Niente carte speciali, sopratutto niente prove: costano tempo, danaro e fatica, e l'occhio deve uscire subito dalla stanza con la luce rossa, deve correre per le strade, nel mito realistico, nel vento (vento di cinema, diceva il grande poeta Solinas), riprendere la folla, i bambini, i disoccupati, gli operai, tutto quanto.

Il cinema d'altronde fa il verso al reporter. Se guardiamo alla storia del cine-occhio da Dziga Vertov ai nostri giorni, vedremo appunto questa progressiva influenza dell'immagine fotografica nel mondo dello schermo, e delle immagini in generale. La condizione del reporter influenza la nouvella vague francese: le famose "passeggiate" dei protagonisti delle pellicole francesi (da Godard alla Varda, ex fotografa di gran classe, che stampava molto contrastato e quindi il salto l'ha fatto naturalmente in modo agiato) non sono che reportage sullo schermo.

La condizione esistenziale: la vita come è, come appare, come deve essere, come vogliamo che sia.
La condizione del reporter: la realtà come è.
La stampa non deve modificarla per niente, non deve creare in chi osserva idee sbagliate. In pochi anni sono stati fatti enormi passi da gigante. I reazionari dicono: sì, passi da gigante, ma indietro. Dal lato estetico forse è così. Del resto la vita d'oggi è una negazione del verbo estetico tradizionale, quello almeno divulgato, o meglio, affermato dai grandi umanisti come Mann e Berenson. La fotografia, sennonché, non vuole e non potrebbe mai essere una disciplina umanistica. Può giovare all'umanità. Può insegnarle molte cose. Può divertirla. Può mostrarle aspetti ignorati. Può inventare anche giochetti speciali (grafici, astratti e via dicendo), facili da usare in pubblicità. Ma non potrà gareggiare  con le altre arti (le quali però si abbassano e prendono a prestito da lei).

La situazione come si vede è contraddetta e contraddittoria. Cosa si può fare per rimediare? Molto per ora non si può fare. I consigli li possiamo naturalmente dare, dato che sono sentiti e pensano di giovare al prossimo: afferrare benissimo la tecnica, sorvegliarla, non dimenticarla mai, imparare bene il linguaggio per servirsene come poi piace a noi. Imparare a stampare, ma bene, facendo tutte le prove e di ogni negativo facendo dieci positivi e vedere quale è il più bello e perché e per come.

Ma questi discorsi saranno ascoltati? Noi crediamo di si. Il mondo cambia, la fotografia non è più quella, il progresso deve pur esserci, e forse torneranno epoche migliori per gli artisti. La figura del grande fotografo non è morta coi Capa e con gli altri che non ci sono più. Continua con gli Avedon, coi Penn, coi Klein, coi Monti (almeno col  Monti che noi conosciamo: fino a qualche anno fa, insomma). Impariamo a stampare meglio, perché le nostre immagini abbiano la loro degna espressione per continuare il nostro discorso, per dire tutto quello che ci sta a cuore. Fotografare e far stampare ad altri è poco bello e poco degno per un fotografo. E' un gesto rimasto a metà. Un pittore sta dipingendo, lo chiamano per una faccenda, deve lasciare la casa e allora dice alla moglie: Teresa, continua tu, qui un po' di giallo, lì una strisciolina azzurra, e qui un piccolo triangolo rosso. Stasera ci vediamo, ciao.
A noi pare la stessa cosa: gratuita. Impariamo a stampare, per imparare a vedere la realtà in una luce nuova, diversa. I giovani dovrebbero vedere le fotografie di Cavalli (tono alto), Monti (tono contrastato), per capire che la bellezza è nella immagine decantata, che ha esaurito il proprio discorso, che ha detto tutto (molto o poco, a seconda) quello che doveva dire. Altrimenti il discorso si interrompe. Va bene, oggi tutto quanto si interrompe, resta a metà, ma non è detto che tutti debbano fare cos'. Le rivoluzioni avvengono proprio quando qualcuno fa qualcosa di diverso dall'altro, quando qualcuno emerge e dive la verità com'è.

Giuseppe Turroni.

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